RUBRICA POST PORNO

In occasione delle mobilitazioni del mese di ottobre per la giornata per la depatologizzazione trans

VUOI ESSERE MIO AMICO?[1]

Atto 1

Rachele Borghi

 

“Are you happy?”Yes, thank you, this is a beautiful question. My happiness is about life, not about gender”[2].

La rubrica potrebbe anche finire qui. In queste parole è già ben riassunto il lavoro e l’approccio di Lazlo Pearlman, ma siccome durante l’intervista che gli ho fatto in occasione della presentazione di “Fake Orgasm” a Agender (Roma, 8-11 dicembre 2011) e della sua performance al Weird festival[3] (Roma, 4-6 ottobre 2012) mi ha detto cose interessanti, preferisco andare avanti…

Lazlo Pearlman è un performer, attivista e insegnante che ha dedicato tutto il suo lavoro alla rottura di pregiudizi, luoghi comuni e dogmi su genere e sesso.

Il corpo di Lazlo è un corpo queer, che esprime la liberazione dai vincoli dettati dalle norme. L’incontro con lui è emozionante, per il suo corpo, impossibile da etichettare come eteronormatività obbliga ma soprattutto per la sua personalità, per il suo modo di entrare in relazione con te, di prenderti per mano e di farti entrare in un altro mondo.

Le sue performance fanno l’effetto di una bomba ma Lazlo innesca la miccia con delicatezza, col sorriso, con l’ironia e la tenerezza. Le bombe che Lazlo costruisce hanno l’odore dei fiori, il colore dell’arcobaleno, il peso delle piume. Lazlo ti entra nella testa : bussa, ti saluta e ti chiede se lo lasci entrare. Il suo lavoro, coinvolgente e toccante, fa cadere ogni riserva, ma soprattutto ogni tipo di preconcetto su ‘cosa’ e ‘come sia’ o ‘debba essere’ una ‘donna’ o un ‘uomo’.

Ciò che le sue performance[4] trasmettono è un senso di libertà, la libertà dell’abitare un corpo che esce dai binarismi e da ogni tentativo di classificazione dualistica. Il suo corpo muscoloso, i tatuaggi colorati, il sorriso affascinante, lo sguardo intenso, la testa rasata, la fica depilata, ti esortano a lasciare da parte tutte le tue convinzioni su sesso e genere e a lasciarti trasportare dai movimenti del suo corpo.

Se non conosci Lazlo, forse vederlo in scena ti lascerà inizialmente perpless*. La fine (o meglio a quella che tu credi sia la fine…) della sua performance, dopo che si è tolto tutti i vestiti a ritmo di danza, può sorprendere. Anzi, diciamo che a volte l’effetto è quello di un ‘terremoto’ nella testa. Senti dei rumori, non sono i detriti che cadono ma tutte le tue certezze sulle costruzioni di genere, del sesso e della sessualità. Non hai, però, voglia di piangere; al contrario, ciò che più desideri è respirare profondamente quella boccata di ossigeno, di aria fresca e nuova che senti liberarsi nell’aria…

Se ti autorizzi a lasciarti andare, se accetti di non farti spaventare dalla perdita dei tuoi punti di riferimento, allora, arrivat* lì, la sola domanda che vorresti fargli, non è “Sei un uomo o una donna?” “Sei etero o omo?” “Intendi operarti? Perché non l’hai fatto?”. No, l’unica cosa che vorresti chiedergli è “Scusa, vuoi essere mio amico?”.

 

COSI (MI) PARLO’ LAZLO PEARLMAN…

 

Qual è il tema centrale delle tue performance? C’è un filo conduttore che le lega?

Sì, c’è un nodo centrale intorno al quale costruisco le mie performance. Senza parlare di tutto il background culturale, posso dire che ciò che più mi interessa è il momento in cui l’esplosione si produce nella testa della gente che assiste al mio spettacolo.

Faccio performance da quando avevo 10 anni, ben prima di capire quale fosse il mio genere e roba simile [ride]. Prima della mia transizione, performavo sempre ruoli maschili e mi ponevo in rottura con la norma. Allora c’erano drag king e gli spettacoli queer erano popolati da cross cast, ovvero uomini che performavano ruoli femminili e viceversa. Anch’io l’ho fatto. Ma dopo la mia transizione non era più possibile perché non provocavo più nessuna rottura della norma. Non sapevo più bene cosa fare…

Ho passato 6 anni lontano dal palco, a dirigere gli spettacoli, perché non avevo ancora ben chiaro quale fosse il ruolo del mio corpo sulla scena. All’inizio non avevo molta voglia di parlare di transessualità, non è il centro del mio lavoro. Ma allo stesso tempo pensavo che la gente non potesse comprendere fino in fondo il senso di quello che facevo senza sapere che sono trans. E’ allora che ho cominciato a spogliarmi sul palco. Pensavo che avesse senso farlo, ma più lo facevo più mi sentivo insoddisfatto… Sì, va bene che sappiano che sono trans, è una buona cosa per la visibilità trans, ecc. Ma allo stesso tempo, pensavo che se fossi stato costretto a parlare di visibilità trans per tutta la vita, mi sarei sparato! [ride]. Piano piano ho cominciato a capire che ciò che cercavo nei miei spettacoli era quell’istante in cui gli/le spettatori/trici mi guardavano e vedono un uomo assolutamente coerente con le norme di genere. Fino al momento in cui mi spogliavo… In quel momento le persone sono così sconvolte da far sì che si crei un momento di rottura in cui hai l’impressione che qualsiasi cosa possa essere rimessa in questione. Gli/le spettator/trici non capiscono fino in fondo cosa succede e non riescono subito a rimettere le idee in ordine, a sostituire lo sconvolgimento [trouble] con qualcosa di chiaro e definito. Ho capito che era quel momento preciso che mi interessava. A quel punto, il mio lavoro è stato di individuare e capire quell’istante…

Dopo ogni choc, gli esseri umani – e la natura in generale –  tentano di riorganizzarsi, di sostituire l’ordine al caos. Cerchiamo tutt* di riempire questo spazio indefinito che si forma nella nostra testa quando siamo sollecitat* da domande che non hanno per forza delle risposte. E allora le domande che mi fanno sono del tipo “Sì, va bene, ma… perché porti gli occhiali? E gli orecchini?” “Dimmi una cosa, ma sei etero? Sei gay?” “Qual è il soggetto della tua ricerca? Riguarda te, riguarda me?” e così via. Credo che ciò che le persone cercano di fare in quel momento sia ridarsi delle sicurezze razionalizzando ciò che è appena arrivato loro; lo fanno partendo da me, come per dire “Se riesco a capire te, allora è chiaro cosa succede a me, nel mio mondo”. Il mio scopo è portare le persone ad ammettere che non capiscono, e che va bene così! Perché forse fa pure bene non capire e può essere perfino importante. E’ proprio lì che voglio condurre la gente. Ecco quello che cerco di fare.

Cerco di trovare un modo di farlo non solo attraverso la nudità. Ho cominciato una tesi di dottorato, studio quel momento allo scopo di esplorarlo meglio. Cerco di trovare altre modalità di provocare quell’effetto durante le mie performance, non solo con lo choc dato dal mio corpo nudo. Il mio lavoro ruota intorno a quel momento. Per esempio, si può arrivare a quel risultato anche con l’humour e la costruzione dello spettacolo. Non cerco solo l’effetto ‘pugno nello stomaco’ perché non voglio dire loro “Vai a farti fottere” ma piuttosto, “fottiamo!” [ride].

 

Ti è già capitato di suscitare reazioni violente?

No, non ho mai avuto episodi di violenza fisica, direi piuttosto di tipi diversi di aggressività, ma forse neanche… Le reazioni aggressive sono del tipo… Ecco sì, hai visto le reazioni dopo la proiezione del film? C’era quel tipo che è intervenuto, era provocazione gratuita[5]

Non è stato proprio aggressivo, ho avuto la sensazione che volesse piuttosto sfidarmi. Durante le proiezioni, questo tipo di persone rappresentano la più grande sfida; sono persone che non riescono a reagire in nessun modo, non trovano il modo di dire ciò che succede loro, ma sentono dentro qualcosa di forte. Non sanno come fare per esprimere ciò che sentono, anche se ci tentano. […]

A volte succede anche che la gente se ne vada, o che non mi rivolga la parola. Nel film alcune scene sono state girate a Barcellona. Ci sono stati dei momenti molti intensi perché la gente che assisteva alle riprese si rendeva conto che c’era qualcosa di inusuale. A volte percepivo una certa diffidenza […]. Molte persone si avvicinavano a me per avere il loro momento di gloria… Ma c’è stata anche una donna che mi ha detto che la disgustavo […].

Per me il contatto con la gente è sempre un momento molto forte. Durante le riprese nelle strade di Barcellona, guardavo la gente negli occhi, ma era troppo forte per me, non sapevo cosa fare di ciò che vedevo nel loro sguardo e non mi sentivo in grado di continuare in questo modo. L’equipe del film è etero, sono anarchic* etero, molto aperti ma, in un certo senso, normativ*. Ho cercato di spiegare al regista che avevo bisogno di uno spazio ‘safe’ […]. Lui mi ha detto di non preoccuparmi “Siamo a Barcellona, siamo in Spagna, alla gente non gliene frega niente, è tutto legale”. Ci ho messo 45 minuti per spigargli la differenza tra ciò che succede con un corpo queer e un corpo maschile etero… Mi ha detto ok ma non aveva ancora capito, fino al giorno dopo.

Facevamo di nuovo le riprese ed ero solo, nessuno si curava veramente di ciò che succedeva intorno a me quando un tipo mi si è avvicinato ridendo, mi ha toccato il sedere e se ne è andato. Ho detto al regista “Hai visto cos’è successo?”. Lui mi ha risposto di no, che era concentrato sulle questioni tecniche. Poi ha riguardato le registrazioni ed è rimasto sconvolto. A me non ha fatto lo stesso effetto; dico solo che avrebbe anche potuto darmi una coltellata, se avesse voluto. Era solo uno stupido, non era abbastanza fuori di testa per accoltellarmi, ma si tratta di un’eventualità che devi tener conto in questo tipo di situazioni…

Vabbé, quando le persone hanno una reazione aggressiva, penso sempre che nella maggior parte dei casi è la conseguenza dello sconvolgimento, della bomba che gli scoppia in faccia, e non è sempre divertente […].

 

A volte però ci possono anche essere delle reazioni euforiche, un’euforia verso il sentimento i libertà dato dall’intravedere la possibilità di uscire dalle norme di genere…

Sì, è quello che mi dicono in molti. Nel mio ultimo spettacolo con Nadège[6] faccio cose molto ‘romantiche’, tipo ballare con i fiori. C’è un appendiabiti, faccio il mio strip e vi appendo i vestiti, poi ballo con lui e diventa il mii partner. Poi esco di scena e la gente pensa che sia finito […]. Invece scendo tra il pubblico e comincio a guardare le persone, cerco di creare una connessione, un’interazione con loro. L’atmosfera cambia di nuovo. Allora comincio a spingere le persone una verso l’altra per farle ballare, io stesso ballo ora con l’una ora con l’altra e alla fine tutti ballano! […] La maggior parte della gente mi dice “Ah, mi sento in un altro mondo…”. L’euforia si vede sulle loro facce e nessuno mi fa più nessuna domanda sul mio genere! […].

Io lo faccio per rompere con lo spazio convenzionale tra me e il pubblico, con quella sorta di ‘voyeurismo’ tra performer e spettatori/trici. Li/e invito a partecipare con me allo spettacolo, perché si sentano coinvolt*. Li convinco a dirmi sì! [ride]. In questo modo, spesso si crea un’atmosfera romantica […] E ottengo almeno che la gente dica “wow!”. E capita pure che qualcuno si spogli pure…

 

To be continued…

 

 

 

 



[1]    La versione originale e integrale dell’articolo è pubblicata sul sito dell’Observatoire des Transidentités http://www.observatoire-des-transidentites.com/article-queer-arts-109808877.html

[2]    Dal film “Fake Orgasm” (AKA “Faking It,” “FO”) 2010, Dir. Jo Sol, Producer, Zip Films, Starring Lazlo Pearlman

[3]    http://weirdfestival.noblogs.org/

[4]    http://www.lazlopearlman.com/video.cfm

[5] Lazlo fa riferimento ad un intervento durante il dibattito che ha seguito la proiezione di Fake Orgasm durante Agender. Lo spettatore aveva cercato di sminuire e ridicolizzare il suo lavoro e la sua posizione.

[6] Nadège Piton è performer, artista e attrice. E’ la partner di Lazlo in diverse performance. Con Beatriz Preciado e Erik Noulette porta avanti il progetto “Bodyhacking” http://bodyhacking.fr. Fa parte del gruppo “Kiss cause trouble”.

Pubblicato in generale | 1 commento

A Chinawoman in Milan

Di Lucy Van Pelt

Chinawoman si presenta in décolleté, abito scuro, elegante ma sobrio, ospite della seconda edizione della manifestazione Lesbiche Fuorisalone, patrocinata dal comune di Milano, che prevede una serie di incontri, esibizioni, proiezioni, dibattiti e concerti incentrati sulla cultura e l’underground lesbici, che si tengono in differenti luoghi di rilievo per il panorama culturale e artistico della città. Il concerto si svolge domenica 7 ottobre alla Palazzina Liberty, in un set elettro-acustico, dove a basi elettroniche la cantante alterna chitarra acustica ed elettrica, ad accompagnare una voce bassa e sensuale che a tratti può ricordare quella di Tanita Tikaram.
Michelle Gurevich (questo il suo vero nome) inizia a cantare quasi per caso e, dopo essersi resa conto che la maggior parte dei suoi amici sono musicisti, ancora prima di aver composto un solo pezzo musicale, in una sorta di sfida, crea un account su myspace, che diventerà da subito un’importante vetrina per l’artista. Di origini russe (la madre era ballerina ed il padre un ingegnere di Leningrado), ha vissuto nella piccola comunità russa di Toronto, in Canada, fino al trasferimento, avvenuto a Berlino, qualche anno fa. La sua musica prende spunto dalle ballate malinconiche russe con la freschezza del pop di stampo inglese. Il suo nome è stato già ripetutamente accostato a personaggi del calibro di Nico o Leonard Cohen, o alle cantanti russe Edita Peha o alla prima Alla Pugacheva. E’ cresciuta, infatti, ascoltando la collezione di dischi europei e sovietici anni ’70 dei suoi genitori. Tra i suoi cantanti nostrani preferiti emergono personaggi quali Celentano, Toto Cutugno, Raffaella Carrà… insomma, tutto ciò che viene considerato il peggior medinitaly da esportazione. Michelle, poco più che trentenne, inizia la sua carriera nel 2005, incidendo due album: Party Girl nel 2007 e Show me the Face nel 2010, seguiti da una serie di singoli dai testi estremamente espliciti che parlano di donne che tentano di liberarsi dalle convenzioni della coppia (we are smart, we can crack the formula, learn to laugh about the occasional fuck, always have been one to endorse openness, now I fear some things best not discussed, da To be with others) o semplicemente dalle convenzioni personali e da un ruolo stereotipato all’interno della società (You can be a slut as long as you’re pure at heart, da Pure at heart) e che narrano di rapporti tra donne, affrontando anche il tabù di un menage a troi (vedi, ad esempio, il testo di Aviva). Dopo il concerto, che, a dire il vero, non mi ha particolarmente appassionato (troppo alte le aspettative, forse, o la povertà degli arrangiamenti, tanto da indurmi a preferire, a tratti, le basi preregistrate su mac, rispetto alle esibizioni con la chitarra), sono riuscita ad avvicinarla per qualche domanda: avrei voluto insistere sulle sue influenze musicali ma ne aveva già parlato abbondantemente durante la performance, aggiungendo solo di essere rimasta stupita dai buu di disapprovazione nei confronti di Celentano, e insieme abbiamo concordato, ridendo, che probabilmente è più una questione politica che di gusto musicale.
Ami molto il cinema e sei videomaker, questo ha condizionato anche il tuo modo di comporre musica e di girare video? Penso di sì, avrei voluto essere una regista ma non ero molto brava, inoltre ho lavorato come editor per 10 anni, quello era il mio lavoro, per questo la mia musica ha un’atmosfera (e un approccio) un po’ cinematografico, quindi ho trovato il modo di essere una filmmaker senza esserlo davvero (in un’intervista a Der Tagesspiegel aveva aggiunto: “La gente ha reagito molto meglio alla mia musica di quanto avesse risposto ai miei film. E’ stato come se avessi parlato per molto tempo e nessuno mi potesse capire, ma quando ho iniziato a cantare tutti sapevano che cosa stavo dicendo”).
Il fatto di avere dei genitori russi, essere cresciuta in Canada e ora vivere a Berlino, ti ha fatto sentire parte di qualche cultura in particolare o le hai assorbite tutte e rielaborate in qualcosa di nuovo? Non so, non sono 100% canadese, sono russa ma poi quando sono stata in Russia, ho realizzato che non sono veramente russa. Onestamente sento anche di avere influenze italiane, francesi… anche se credo di sentirmi più che altro canadese e russa. Probabilmente nessuno è 100% della cultura del suo paese d’origine. Il 50% è dato dalla mia formazione, da dove sono cresciuta, dalla mia famiglia e l’altro 50% è sconosciuto.
Ho letto che preferisci non parlare della tua vita privata: pensi che la vita di un artista vada distinta dalla sua arte? Penso di sì, ma la gente è sempre e comunque curiosa. Voglio dire, se sei interessato ad un artista, vuoi anche sapere qualcosa sulla sua vita, ma anche avendo queste informazioni personali, non riusciresti a sapere nulla di più di quell’artista. Mettiamo il caso che io sia interessata a Tom Cruise, forse è simpatico sapere che a lui piace… non so… andare a cavallo, ma non ho bisogno di avere quell’informazione su di lui per apprezzarlo. Per questo penso che sia giusto per un artista mantenere una certa aurea di ambiguità e mistero. Cioè, se tu sai che a me piace baciare i cani, che cosa ti dà in più? Niente, per cui penso sia necessario tenersi certe cose per sè.
Che tipologie di donne vuoi rappresentare nelle tue canzoni?
In genere nelle mie canzoni racconto delle mie esperienze, quindi suppongo di essere io la donna che voglio rappresentare. Io sono il “personaggio/soggetto” delle mie canzoni.
Cosa significa per te essere stata invitata ad un festival lesbico, e per te è importante fare coming out?
Ho scritto canzoni che parlano di amori tra donne, ma non vedo sempre tutto così bianco e nero, e forse è meglio così per alcune persone, perché fondamentalmente nella mia musica la questione è un “non problema”.
E’ presente, ma non ne faccio un affare di stato, né un problema, perché per me non lo è.
Quindi spero che sia d’ispirazione a certe persone, come a dire “..lei canta di queste cose come se nulla fosse, non ne fa neanche una questione politica, queste cose esistono è un fatto e chissene importa…” quindi spero che per certe persone sia d’ispirazione, queste cose esistono e non c’è neanche bisogno di appiccicargli delle etichette. Tutto qui.

Purtroppo ci dobbiamo salutare in fretta, alle 19.00 c’è la possibilità che scatti l’allarme del luogo che ha ospitato il concerto. Le stringo la mano per ringraziarla, forse anche con troppa veemenza, tanto da farla sobbalzare…
A questo link potete ascoltare la musica e leggere i testi di Chinawoman. Un grazie particolare a Medhin Paolos e Alessandro Rocchi per le traduzioni, a Chiara Nicoli per le foto.
Pubblicato in musica | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Gender Bender 2012

Dal 27 ottobre al 3 novembre

Dove: Bologna e Modena, varie location

Info: 051 0957200, www.genderbender.it

Il Gender Bender, la kermesse internazionale sulle identità contemporanee promossa da Il Cassero, gay lesbian center, compie 10 anni. Gender Bender, articolato intelligentemente intorno al lungo ponte di Ognissanti, ospita artisti visivi, musicisti, registi cinematografici e teatrali, coreografi e scrittori che “producono visioni e immaginari innovativi e costruttivi, legati alle identità di genere maschile e femminile, alle differenze di orientamento sessuale e alla rappresentazione del corpo nella contemporaneità”. Alle location del festival, che già occupava l’intero centro di Bologna in un incessante e vivacissimo rimbalzare di partecipanti, visitatori, ospiti e staff, si è aggiunta Modena, proprio in occasione del meritato decennale.

Il calendario e il cartellone non sono ancora completi, ma già sono annunciati artisti e performer provenienti da Paesi Bassi, Stati Uniti, Spagna, Svizzera, Italia, Belgio, Israele, Francia.

Immagine da Keep the Lights On

Immagine da Keep the Lights On

Tra gli appuntamenti cinematografici, selezionati tra i  principali festival mondiali, I Want Your Love, di Travis Mathews, storia di Jesse che, dopo dieci anni passati a San Francisco, decide di tornare nel Midwest. Hors Les Murs, anteprima nazionale premiata al festival di Cannes 2012, è l’opera prima del belga David Lambert: Paulo è un giovane pianista che incontra Ilir, bassista di origine albanese. Ambientato nella New York di fine anni ’90, Keep the Lights On (vincitore del Teddy Award al festival di Berlino e premiato come miglior film all’Outfest di Los Angeles), diretto da Ira Sachs, racconta l’amore tra Erik, un documentarista gay dichiarato, e Paul, un avvocato che vive nasconde la propria omosessualità. Sexual Tension: volatile dei registi Marco Berger e Marcelo Mónaco è l’anteprima europea di un film composto da sei storie brevi di uomini che non sempre riescono a raggiungere ciò che desiderano.

Ulrike OttingerTra i documentari, in anteprima nazionale sia Les Invisibles di Sébastien Lifshitz, in cui uomini e donne over 70 raccontano la storia della loro omosessualità e la lotta per la liberazione sessuale in Francia negli anni Settanta, sia Ulrike Ottinger Die Nomadin Vom See,  ritratto di Ulrike Ottinger.

Molte prime nazionali anche per la sezione danza del festival, che ospiterà, il 27 ottobre, I-ON, nato dall’incontro tra Ivo Dimchev e l’opera dello scultore Franz West, Leone d’oro alla carriera alla Biennale del 2011.

Storm End Come di Yasmeen Godder, foto di Gadi Dagon

Storm End Come di Yasmeen Godder, foto di Gadi Dagon

Yasmeen Godder, coreografa israeliana, considerata una delle espressioni più originali della danza indipendente internazionale, presenta, il 3 novembre, Storm End Come, in cui sei danzatori esplorano un universo intimo e pulsionale fatto di squarci inaspettati, rapidi climax e quiete improvvisa. Hasta dónde..?¸ il 2 e 3 novembre, è un corpo a corpo tra due interpreti maschili affiatati che portano al limite le possibilità della danza contact in un gioco di improvvisazioni, attraverso una concatenazione continua di movimenti che non concedono pause allo spettatore. Lo spettacolo è vincitore di sei premi ai concorsi di coreografia di Madrid, Hannover, Burgos, New York. Hasta Donde è accompagnato da Por sal y samba, dove due danzatori ballano un samba senza musica ma, di sequenza in sequenza, elementi di sadomasochismo prendono il sopravvento.

Peggy Olislagers, direttrice del Festival De Nederlandse Dansdagen di Maastricht, conduce una serie di conversazioni pubbliche sui ruoli di genere, il sesso, la felicità, i corpi e la solidarietà intergenerazionale, con i coreografi invitati al festival.

La sezione arti visive si divide, dal 20 ottobre al 27 gennaio, tra Bologna e Modena (nelle location della Civica di Modena, Palazzo Santa Margherita e Palazzina dei Giardini). La New York degli anni ’70 e ’80 è al centro della collettiva Changing Difference. Queer Politics and Shifting identities, che ospita opere di Peter Hujar, Mark Morrisroe e Jack Smith. La prima personale in Italia di Bridget Baker è promossa da MAMbo e sarà visitabile dal 28 ottobre al 6 gennaio. L’artista sudafricana presenta in anteprima mondiale l’opera video The Remains of the Father – Fragments of a Trilogy (Transhumance): una ricerca sulle relazioni tra Eritrea e Italia durante l’epoca coloniale e sui legami che queste hanno determinato. In occasione dell’incontro con Bridget Baker (presso MAMbo, il 28 ottobre alle 18),  verranno presentati altri lavori video mai diffusi in Italia.

Alessandro Fullin

Nella sezione Conversazioni sarà possibile incontrare Virginie Despentes, Verena Stefan, e Alessandro Fullin.

Le iniziative culturali sono seguite e accompagnate da party che ospitano DJ della scena queer. Gender Bender si addentra nell’underground europeo alla ricerca delle nuove tendenze musicali e dei nuovi modi di vivere l’entertaiment notturno per un programma che abbraccia le multiformi espressioni della club culture gay, lesbica e queer.

 

Pubblicato in cinema, generale | Contrassegnato , | Lascia un commento

Eccoci di nuovo!


Foto di Claudia Lo Presti, courtesy Supermary

Tutti i nuovi articoli

La nave-clinica di Women on Waves fermata in Marocco
di Reiner Wandler
(con Le marocchine senza diritti)

Intervista alla blogger tunisina Leena Ben Mhenni
di Giuditta Pellegrini

Marea: un periodico femminista che resiste
di Monica Lanfranco

Decrescita a Venezia
di Daniela Danna
(con Il seminario di XXD su popolazione e decrescita)

Pubblicato in generale | Lascia un commento

La nave-clinica di Women on Waves fermata in Marocco

di Reiner Wandler
La campagna per offrire aborti in acque extraterritoriali nei paesi dove l’aborto è proibito arriva in Marocco, e viene bloccata dalle autorità. Le autoritò del Marocco hanno probito alla cosiddetta “nave dell’aborto” dell’organizzazione delle donne olandesi Women on Waves di gettare l’ancora nel porto di Smir. Giovedi 5 ottobre la Marina ha costretto la nave-clinica a lasciare le acque territoriali marocchine. Numerosi dimostranti hanno protestato contro l’arrivo della nave.

MADRID (die Tageszeitung, sabato 7 ottobre 2012) Women on Waves voleva offrire aborti sicuri alle donne marocchine a bordo della nave. Per la prima volta la nave ha raggiunto un paese musulmano. In Marocco l’aborto è proibito dalla legge e tabuizzato nella società. E non appena è arrivata la nave, la polizia e l’esercito sono apparsi. “L’intero porto è stato isolato ermeticamente da agenti in divisa e in borghese”, ha protestato la portavoce della campagna, Rebecca Gomperts. Davanti al porto donne e uomini conservatori hanno mostrato le foto di feti sanguinolenti. Alla fine, l’equipaggio è stato costretto a lasciare le acque territoriali marocchine da una nave da guerra, senza le donne che erano scese a terra.
“Nemmeno alla nostra avvocata è stato permesso di rientrare a bordo. I membri dell’equipaggio sono stati identificate e fotografate, le bandiere di Women on Waves sequestrate”, racconta Gomperts, che vuole rimanere ancora nel paese insieme a venti attiviste olandesi e marocchine. L’organizzazione opera dal 1999 ed è stata invitata dal Movimento alternativo marocchino per la libertà individuale. Women on Waves ha in passato realizzato azioni simili in Irlanda, Spagna e Portogallo.
“Nonostante la repressione, abbiamo raggiunto il nostro obiettivo”, dice Gomperts, sono riuscite a far parlare del severo divieto di aborto in Marocco. “E abbiamo istituito una linea telefonica, in cui si informano le donne su come possono terminare da sole una gravidanza indesiderata, con un farmaco legalmente disponibile”.
Il piano di aiutare le donne ad abortire a bordo della nave al di fuori delle acque territoriali non può invece essere realizzato dopo l’intervento della Marina. “La manifestazione e l’azione delle forze di sicurezza volevano dare dare l’impressione che non siamo benvolute in Marocco”, dice Gomperts. “Ma non è così. Fuori le porto, nei negozi e nei caffè, siamo state accolte amichevolmente. ”
Perché ciò che il governo del partito islamico di Giustizia e Sviluppo vuole nascondere è una storia triste. Ogni giorno – così le stime della vice presidente dell’Associazione marocchina per combattere l’aborto clandestino (Amlac), Salwa Abourizk – nel paese si fanno 500-600 aborti, nonostante il rigoroso divieto.
La maggior parte degli aborti avvengono senza alcuna garanzia igienica e medica. Solo chi può pagare tra i 150 e i 500 euri può andare in cliniche che, malgrado la legge, interrompono le gravidanze non desiderate. Il resto cade nelle mani di qualche mammana o cerca di finire la gravidanza da sé con qualche mezzo casalingo. Ogni anno, così dice Women on Waves, muoiono 78 donne per le conseguenze di queste pratiche. Il governo giustifica la linea dura con la religione. “La donna ha il diritto di decidere da sola sul suo corpo” afferma Abourizk. È un diritto universale. Dal momento che persino gli imam più rinomati affermano che il feto riceve l’anima solo dopo 40 giorni, Amlac richiede una regolazione sul termine, che permetta l’aborto nelle prime 10-12 settimane.
Amlac garantirà inoltre che nelle scuole e nelle università si faccia informazione sulla contraccezione. Anche questo non è possibile secondo una interpretazione conservatrice di norme religiose. Anche il sesso prima del matrimonio è punibile fino a un anno di carcere.

Le marocchine senza diritti

di Reiner Wandler

La violenza sessuale contro le donne è diffusa in Marocco, e l’aborto, a differenza di Tunisia e Algeria è quasi completamente proibito
MADRID (taz, 6.10.2012) Il Marocco è il paese più restrittivo del Nord Africa per quanto riguarda il diritto all’aborto. Una gravidanza può essere interrotta solo se la vita della donna è in pericolo, in tutti gli altri casi, la donna è minacciata da una pena detentiva che va da sei mesi a due anni, e coloro che svolgono materialmente l’incarico rischiano fino a dieci anni di carcere – in caso di morte della donna fino a venti anni. Anche dopo uno stupro l’aborto rimane illegale.
Nella vicina Algeria, le sanzioni per un’interruzione di gravidanza fuori dall’ambito della legge sono simili. Ma l’interruzione è consentita se le donne rischiano gravi danni psicologici per la gravidanza. Inoltre l’aborto è legale se il feto ha gravi malformazioni.
A differenza del Marocco, vi è una regolazione dell’aborto per le vittime di stupro. In questi casi tuttavia l’aborto è consentito solo quando la violenza sessuale ha avuto luogo nel contesto di un atto di violenza terroristica. Questa disposizione è stata introdotta nel 2004, purtroppo troppo tardi per molte delle vittime del terrorismo islamico negli anni 90.
Il paese più liberale è la Tunisia, da molto prima della rivoluzione di gennaio 2011. Nel più piccolo dei tre paesi del Nord Africa l’aborto è stato depenalizzato già nel 1973. La Tunisia è pertanto la grande eccezione in Africa e nel mondo arabo. Una vasta gamma di indicazioni mediche, sociali ed economiche consente l’aborto per tutto il tempo della gravidanza. Esso viene poi effettuato in cliniche specializzate.
“Le donne in Marocco non hanno diritti”, lamenta la portavoce del Movimento alternativo per le libertà individuali, Betti Lachgar, che ha invitato le Women on Waves in Marocco. Nonostante la riforma del diritto di famiglia in Marocco, otto anni fa, abbia conferito più diritti alle donne, la realtà sociale è molto diversa.
Secondo il ministero per la Famiglia, sei milioni di donne marocchine – più di un terzo – sono regolarmente oggetto di violenza familiare. Il 55 per cento di questi attacchi sono perpetrati dai loro mariti. Una legge che rende la violenza domestica un reato penale, è all’esame del parlamento da due anni, ma fino ad oggi non è stata votata.

In Marocco, uno stupratore va impunito se si sposa la sua vittima. Dopo il suicidio in primavera di una giovane donna che è stata costretta a un simile matrimonio, sono scoppiate manifestazioni di protesta in tutto il paese.

Pubblicato in aborto, articoli | Contrassegnato , , , | Lascia un commento

Intervista alla blogger tunisina Leena Ben Mhenni

di Giuditta Pellegrini

foto di Giuditta Pellegrini

Leena Ben Mhenni rappresenta la nuova generazione di giovani tunisini che da tempo si battono per una democrazia laica e incentrata sulla partecipazione popolare. Il suo blog, A tunisian Girl (atunisiangirl.blogspot.it), più volte vittima della censura attuata dalla dittatura di Ben Ali, e una delle maggiori fonti di informazione per attivisti e giornalisti durante la rivoluzione, torna a rivestire il ruolo di importante voce critica in un momento in cui l’assemblea costituente eletta a ottobre con il compito di redigere la nuova costituzione e guidata dal partito islamista di maggioranza Ennahdha, sta raccogliendo sempre maggiori dissensi a causa delle sue mancate promesse e per le numerose proposte che minano le libertà personali. La posizione troppo accondiscendente da parte del governo nei confronti dei gruppi di estremisti religiosi salafiti, le cui aggressioni nei confronti di artisti, donne vestite all’occidentale, attivisti sono sempre più frequenti, ha destato una comprensibile apprensione tra la vigile popolazione, accendendo focolai di protesta in tutto il paese, che si propagano nonostante la forte repressione da parte della polizia. I maggiori attacchi rimangono comunque quelli nei riguardi dei diritti delle donne e al codice dello Statuto Personale promulgato nel 1956 dall’allora presidente Habib Bourguiba, che sanciva l’uguaglianza dei sessi (salvo nell’eredità) facendo della Tunisia uno dei paesi arabi più liberali. E se le proposte di Ennahdha di reinserire la sharia e la poligamia hanno provocato una forte reazione e sono state sventate anche grazie al fermo no dei partiti d’opposizione, la preoccupazione di una regressione dai diritti acquisiti si rinnova giorno per giorno e il 13 agosto (giorno della festa della donna, in cui si celebra l’anniversario della promulgazione del Codice di Statuto Personale) le donne sono scese in piazza a Tunisi contro una nuova proposta avanzata dall’attuale governo che prevede la definizione della donna nella costituzione come complementare all’uomo, e non più in termini di uguaglianza.

È all’indomani di questa manifestazione che incontriamo Leena Ben Mhenni. Ci accoglie nella sua casa alla periferia di Tunisi, all’indomani della manifestazione che le donne hanno organizzato contro i nuovi tentativi del governo di relegarle a mero attributo dell’uomo. Il suo sguardo è fiero e serio e sul suo corpo sono ancora visibili i lividi delle percosse che le ha inferto la polizia durante una manifestazione pacifica in favore della libertà di riunione. È preoccupata per la situazione e per la sua incolumità personale, su cui incombe, ancora una volta e come durante la dittatura, l’ombra sinistra di una censura che mira a reprimere ogni tentativo di partecipazione democratica. Sul suo blog si moltiplicano le denunce di repressione da parte del governo e dei gruppi religiosi estremisti nei confronti di attori di teatro, giornali, media e, soprattutto, verso le donne:

 

GP, Leena, questo è un momento molto importante della post rivoluzione in Tunisia in cui si sta scrivendo la nuova Costituzione: qual è la situazione e perché siete di nuovo in piazza a manifestare?

LBM: Quando si osserva la situazione attuale in Tunisia si ha l’impressione di essere molto lontani da quello che dovrebbe essere un processo di transizione verso la democrazia. Il governo attuale non è in sintonia con le richieste del popolo: invece di iniziare a lavorare a un programma per il momento il dibattito è fermo su argomenti che riguardano la religione e l’identità, cosa del tutto inedita per i tunisini, che sono sempre stati un popolo tollerante e si sono sempre accettati gli uni con gli altri. Uno dei dati più preoccupanti è il ritorno ad una forte repressione da parte della polizia, la quale si autodefinisce repubblicana, ma che in realtà ha dimostrato di essere partigiana del partito islamista Ennahdha e che sembra agire in coordinamento con i gruppi salafiti. Quest’ultimi rappresentano una grave minaccia alle libertà personali: abbiamo visto molti attacchi alle donne, aggredite per strada perché indossavano una minigonna e durante il mese di Ramadan alcuni locali hanno subito blitz da parte di polizia e salafiti affinché rimanessero chiusi, mentre in Tunisia si è sempre stati liberi di scegliere se praticare o meno il digiuno e se aprire o no il proprio ristorante, soprattutto nelle zone turistiche.

La polizia esercita maniere molto forti contro la gente che manifesta, utilizzando lacrimogeni, proiettili di gomma e numerosi fermi: questo è successo a Sidi Bou Said, a Sfax, dove sono stati arrestati dei sindacalisti, e anche nella capitale. Lo scorso 5 agosto io stessa sono stata aggredita durante una manifestazione pacifica in favore della libertà di riunione. Inoltre il governo non riesce a gestire i reali problemi del paese: manca l’elettricità in molte zone e le strade sono invase dalla spazzatura, tanto che si è scatenata un’epidemia di colera. È un periodo molto difficile: si ha l’impressione che la rivoluzione sia stata confiscata, dal momento che quasi nessuno dei suoi obiettivi è stato realizzato.

GP: Una delle caratteristiche della dittatura di Ben Ali era la totale mancanza di libertà di espressione. Le persone avevano paura di esprimere le proprie idee e di essere perseguitate per una soffiata e tu stessa sei stata vittima della censura a più riprese. Credi che ora le cose siano cambiate?

LBM: Nei primi mesi successivi al 14 gennaio abbiamo avuto un periodo di euforia rivoluzionaria in cui sembrava ci fosse una grande libertà di espressione, ma ho l’impressione che la stiamo perdendo giorno dopo giorno. Pochi giorni fa per esempio l’artista Lotfi Abdelli ha dovuto annullare il suo spettacolo teatrale a Menzel Bourguiba perché alcuni salafiti hanno minacciato di intervenire con la violenza. La cosa più preoccupante è che di fronte a questi atteggiamenti irresponsabili il ministero dell’Interno non fa nulla, mentre quando si tratta di manifestazioni pacifiche per reclamare dei diritti la repressione è sistematica.

Anche i media ufficiali sono vittima della censura. Lo abbiamo visto per esempio nel caso della catena televisiva privata Nessma il cui proprietario è stato denunciato per aver mandato in onda il cartone animato Persepolis con l’accusa di “attentato ai valori religiosi”(nda: il fumetto dell’iraniana Marjane Satrapi, poi divenuto cartone animato, è stato censurato per aver mostrato una rappresentazione personificata di Dio). Tutto ciò rappresenta un attacco alla libertà d’espressione per certi versi più feroce di quello esercitato dalla dittatura di Ben Ali, perché allargato a tutti gli strati della società civile e non più mirato ad ostacolare chi si occupava in maniera diretta di politica come blogger, attivisti o politici.

GP: Quali sono le proposte di Ennahdha che contestate come donne?

LBM: I diritti delle donne in Tunisia sono sempre più minacciati. Prima del 14 gennaio 2011 le associazioni femministe lottavano per chiedere l’uguaglianza dei sessi anche negli ambiti non riconosciuti dal codice dello Statuto Personale, e cioè quello che riguarda l’eredità, mentre adesso dobbiamo lottare per preservare i diritti che abbiamo già, e questo è inaccettabile dal momento che le rivoluzioni si fanno per avere una vita migliore e non per regredire. Anche se le leggi non sono ancora cambiate, il governo sta cercando di indottrinare la gente perché faccia pressione sulle donne. Per strada molte donne non velate vengono aggredite verbalmente: è così che si comincia a perdere dei diritti.

Il governo ha provato a cambiare le leggi che tutelano i diritti delle donne con proposte inaccettabili: ha invocato il ritorno alla poligamia e l’applicazione della sharia, la legge coranica così come è in vigore in Arabia Saudita. Fortunatamente c’è stata una reazione immediata della società civile, che ha fatto pressione affinché ciò non avvenisse. In questo momento stiamo lottando contro la proposta fatta dai leader di Ennahdha che prevede nella costituzione la definizione della donna come complementare all’uomo e non più in termini di uguaglianza: una definizione che va contro ogni convenzione internazionale. Il termine complementare è troppo vago: si può essere complementari senza essere uguali né nei diritti né nei doveri, mentre quello che noi chiediamo è l’eliminazione di ogni forma di discriminazione.

GP: Questa pressione sociale potrebbe far desistere le donne a partecipare alla vita pubblica e politica?

LBM: Fortunatamente la maggior parte delle donne tunisine sono coscienti dei loro diritti e sono pronte a lottare per difenderli. Lo abbiamo visto durane la manifestazione del 13 agosto, partecipatissima da donne che credono nell’uguaglianza fra sessi, e che sono scese in piazza per dire: siamo qua, siamo contro questa regressione. Io credo che le donne tunisine si impegneranno ancora di più nella vita pubblica proprio in vista di questo pericolo.

GP: L’utilizzo del velo è sempre più diffuso fra le donne tunisine, soprattutto nelle zone più periferiche. Credi che questo sia un sintomo di capitolazione delle donne, soprattutto di quelle che vivono in aree più tradizionaliste rispetto a Tunisi?

LBM: L’utilizzo del velo si propaga a vista d’occhio in tutta la Tunisia, compresa Tunisi e questo è il risultato della pressione sociale. Ma anche le donne col velo tengono ai loro diritti. In Tunisia ci sono intere famiglie che vivono grazie al lavoro femminile. Per esempio nelle zone rurali sono le donne le più impiegate, perché accettano di lavorare nei campi per salari più bassi di quelli che sarebbero pagati agli uomini: esse hanno tutta la famiglia a carico e non possono rinunciare ai propri diritti.

GP: Qual è il tipo di governo che auspicate ?

LBM: Il mio ideale di governo è un modello laico, in cui la politica e la religione siano separate: la religione è individuale, è una relazione tra Dio e la persona, non si possono mischiare le cose. Io sogno una democrazia in cui tutti i tunisini possano vivere insieme nonostante le loro differenze di religione, di ideologia, di costumi. La Tunisia deve essere per tutti i tunisini, nessuno escluso.

GP: E quanto credi sia vicino questo obiettivo?

LBM: Il cammino è ancora molto lungo, si profilano dei periodi difficili, ci saranno altre rivolte e la gente continuerà a fare resistenza e a battersi per i propri diritti: ci vorranno anni e anni prima di raggiungere il nostro obiettivo. Ma non ci fermeremo: la rivoluzione continua!

 

Pubblicato in articoli, movimenti | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

Marea: un periodico femminista che resiste

di Monica Lanfranco

Nel 2009 abbiamo festeggiato i 15 anni di Marea, il trimestrale che dirigo e che condivido con altre donne da un tempo grande, considerato il luogo in cui si stampa, e cioè un paese dove, tranne la storica testata Noidonne, nessun giornale femminista ha potuto mai accedere a finanziamenti tali da poter pagare, anche poco, chi ci scrive e collabora.

In questi anni di incontri, seminari, convegni internazionali, laboratori nei quali ho potuto raccontare il percorso decisamente controcorrente di Marea ho sempre nominato anche le altre testate femministe con le quali siamo in contatto, e non è per piaggeria che dichiaro qui che, oltre al Paese delle donne è proprio Mezzocielo che sento più vicina come esperienza, e che considero in piccola parte mia, anche se la geografia e la vita non mi hanno permesso di partecipare molto da vicino alla “cucina” del giornale. Non sono solo (e sarebbe già abbastanza) i legami, la stima l’affetto e il riconoscimento del valore del lavoro di quante lo compongono ogni volta a farmi sentire fortemente in sintonia con questa sorella femminista isolana. Nemmeno l’ostinazione di non smettere di uscire ancora in formato cartaceo, che accomuna molto lo stile di Marea con quello di Mezzocielo.

È soprattutto, il suo tratto laico: ossia il detenere, sì, un punto di vista sul mondo, sulle pratiche, sulla politica mista e su quella dei movimenti delle donne. Ma il non pensare di avere, sempre, un punto di vista univoco sul tutto: il desiderio di stimolare e affrontare i conflitti, nominarli, sostenere delle ragioni pensando però di non costituire una “chiesa” (o meglio una chiesina) che impartisca benedizioni e maledizioni.

C’è poi un fatto per nulla marginale: sia Mezzocielo che Marea cercano di fare giornalismo, e formazione al giornalismo e alla comunicazione con ottica di genere, anche se fuori dai circuiti e dai modi tradizionali.

Il giornalismo mainstream in Italia si distingue per essere un settore governato da poche leggi, dettate per la maggior parte dal potere economico, e questo non lo rende diverso da ciò che accade in altri paesi del mondo. Ma ciò che più mi sgomenta è che la formazione di chi informa, se scusate il gioco di parole, sia un argomento inesistente.

Penso che la maggioranza delle mie colleghe e dei miei colleghi siano ignoranti, molto più ignoranti della media degli italiani che pretendono di informare, e in qualche modo, quindi di arricchire culturalmente.

Mi spiego.

Per fare qualunque altro mestiere, intellettuale e non, esistono scuole, università , corsi, e successivamente, moltissime sono le occasioni di verifica e arricchimento del proprio patrimonio. Bene, per la professione giornalistica queste opzioni sono scarse, per non dire nulle. E nemmeno richieste dalla categoria con la forza e la convinzione che sarebbero necessarie proprio in questo momento, nel quale si parla di un allarmante 47% di giovani tra i 20 e i 25 anni che nonostante frequentino l’università non leggono nemmeno un libro all’anno oltre a quelli obbligatori.

Poche le scuole, pochissimi i corsi dove si insegna a comunicare e a informare: si continua con il mito cinematografico del “mestiere imparato sul campo” ovvero nelle redazioni. Una bugia.

È vero: nella redazione si imparano alcune importanti modalità tecniche per scrivere, ma quasi mai si apprendono i contenuti di ciò che si scrive. È chiedere troppo che chi si occupa di questioni ambientali sappia maneggiare la materia, e non si limiti a passare i comunicati o pubblicare interviste agli esperti? O aspettarsi che, se si fa un’inchiesta sui maltrattamenti verso le donne, non si ignorino vent’anni di storia politica, di iniziative e di testi scritti grazie all’esperienza sul campo di centinaia di attiviste e teoriche del movimento delle donne? O pretendere che si riducano gli spazi del “particolare carino di colore” (come era vestito il leader dell’opposizione, cosa hanno mangiato al pranzo di lavoro) se si parla di crisi economica, e si fornisca al pubblico una strumentazione concretamente utile, attraverso l’informazione, su che cosa sono il welfare, la globalizzazione o la crisi economica?

So bene che farsi queste domande porta inevitabilmente come corollario a chiedersi se siano le leggi della domanda o quelle dell’offerta a decidere cosa tiri e faccia vendere, e quindi di conseguenza quale livello di preparazione sia necessario per chi opera nel campo dell’informazione.

A chi mi dicesse che i tempi del mestiere giornalistico, specie per quel che riguarda i quotidiani e i servizi informativi della tv, sono sincopati e troppo veloci per consentire approfondimenti accurati mi sento di rispondere, anche rischiando di essere sbrigativa: “È vero, ma sono scuse”.

Oggi sono tali e tanti gli strumenti tecnologici dei quali si può far uso (internet e archivi telematici, tanto per citarne due soltanto) che se davvero si continua il solito, comodo, sicuro pezzo su qualunque argomento scritto senza approfondire mai oltre-ciò-che-si pensa-il pubblico-si aspetti, lo si continua a fare perché è la scelta più facile, che spesso è sicura anche presso la proprietà, dato che non mette in gioco alcun commento o informazione difforme dal coro.

Questa colpevole pigrizia vale doppiamente per l’argomento donne. Sono tante le mie simili che hanno, in questi anni, fatto la loro comparsa nelle redazioni, a tutti i livelli. Anche se sono sempre di più gli uomini a ricoprire i posti di comando, sono quasi tutte donne le direttore dei magazine femminili, e molte sono le donne caporedattrici, o inviate.

Ma questo ha cambiato davvero il modo di fare informazione, il suo linguaggio? Io penso che il modo di fare informazione cambia, e in modo considerevole, solo se le donne, a qualunque livello della gerarchia si trovino, adottano regole diverse, sia nei contenuti di ciò che scrivono, o propongono, sia nelle relazioni che instaurano tra donne e uomini. Uno per tutti è il contenuto che attiene al linguaggio. Se le giornaliste, consapevoli di quanto è importante abituare chi legge alle novità e farle diventare norma, introducessero la sessuazione del linguaggio  definendo ogni volta il maschile e il femminile (assessora, ministra, inviata) e abbandonando il neutro, assolverebbero all’importante funzione di veicolare questo cambiamento. Poca la fatica, buono il risultato.

Quanto alle relazioni tra donne rimane per me importante un concetto che Marina Pivetta, direttora del Foglio del paese delle donne, ha espresso anni fa durante una riunione del Tavolo delle giornaliste. In quell’occasione Marina aveva indicato come uno dei motori più forti per disincentivare la competizione tra donne, specie tra le colleghe più anziane e quelle più giovani, la spartizione della propria “agendina”, quello strumento ambito, misterioso e ricattatorio che contiene i numeri (riservatissimi?) attraverso i quali si accede alle persone che contano, e che quindi garantirebbero il filo diretto per fare lo scoop, o comunque assicurarsi di essere la prima a sapere le notizie.

Marina sosteneva che sul divide et impera il patriarcato ha costruito la spaccatura nel mondo femminile, e quello sul lavoro è senza dubbio il conflitto più doloroso e mortale che possa scatenarsi tra due donne in lizza per un posto o un avanzamento di carriera. Ma se si provasse a sgombrare il campo dalla competizione, e se quell’agendina fosse invece a disposizione di tutte, per favorire la collaborazione al fine di incentivare e migliorare la qualità di ogni singolo pezzo in ogni singolo comparto del giornale?

Passando a parlare dei contenuti, un’altra domanda: quante giornaliste italiane che lavorano nella stampa mista sono a conoscenza del fatto che in Italia esistono alcune testate autogestite fatte da donne, in parte giornaliste e in parte no, e decine di siti femministi (tra i quali anche quello di Marea www.mareaonline.it) e perfino una radioweb femminista, www.radiodelledonne.org ?

Quante di loro attingono a questo patrimonio come ad una fonte privilegiata, in pari dignità con altre alle quali si rivolgono di solito?

Non è forse venuto il momento di cominciare, da parte delle testate delle donne, di farsi fonte, ovvero di porsi all’attenzione degli stessi organi direttivi della categoria professionale, e verso quelli politici definendo proposte e programmi di formazione tematiche sul patrimonio del movimento delle donne?
Se riteniamo di essere una fonte autorevole allora è il caso di dirlo a gran voce, diventando pienamente titolari presso gli altri enti di formazione per fare cultura e informazione di genere. Perche’ il grande mondo delle parole e dei segni delle donne arrivi sempre più, e al maggior numero di donne e uomini possibile.

*www.monicalanfranco.it www.altradimora.it

 

Pubblicato in articoli, femminismi | Contrassegnato , , , | Lascia un commento

Decrescita a Venezia

di Daniela Danna

Ecofemministe e femministe di tutte le specie e i generi – Marco Deriu, di Maschile Plurale e preseidente dell’Associazione per la decrescita, è stato la “faccia pubblica” dell’organizzazione della conferenza  – sono state fortemente presenti alla Conferenza sulla Decrescita che si è tenuta a Venezia dal 19 al 23 settembre 2012. I settecento partecipanti erano equamente suddivisi tra donne e uomini, tantissime le giovani. Il movimento per la decrescita italiano si è impegnato in grande stile organizzando questa iniziativa internazionale, a cui ha portato i suoi esponenti più noti a livello planetario, portatori di idee ed esperienze per un mondo che – lo si voglia o no – è già entrato nella fase della decrescita. Il picco del petrolio è stato infatti già sorpassato, come ha testimoniato il geofisico Ugo Bardi, il rendimento energetico è in diminuzione, cioè ci servono progressivamente più calorie per ottenere la stessa quantità energia che in passato. La recessione globale però non è la decrescita che i convenuti auspicano – anche se è vero, notiamo, che contribuisce alla diminuzione di gas serra e quindi allevia il cambiamento climatico. L’idea di decrescita è però cosa molto diversa dalla crisi del modo di produzione capitalistico, iniziata nel settore finanzario e arrivata all’economia reale: “Nulla di peggio di una società di crescita senza crescita”, ha ripetuto Latouche. Per uscirne si tratta sì di ridurre, riutilizzare, riciclare (sono alcune delle 8 erre del famoso slogan di Latouche), ma soprattutto di ridistribuire e di rendersi conto, con Eric Fromm, che essere è meglio di avere, che è più fruttuoso investire nelle relazioni umane che non nell’accumulo di denaro.

La scelta del termine “decrescita” è stata discussa in molti momenti della conferenza, con una generale propensione a parlare piuttosto di buen vivir, cioè usando un’immagine in positivo e non in negativo. In realtà si tratta di ricostruire, dalle macerie di questa civiltà del petrolio, del profitto, della competitività in corso di crollo, un mondo in cui la solidarietà sostituisca la concorrenza, la qualità sostituisca la quantità, e si faccia pace col pianeta invece di saccheggiarlo, secondo l’espressione di Barry Commoner, l’ecologista recentemente scomparso. Nientemeno…

Uno degli interventi più belli è stato quello dell’economista femminista Antonella Picchio, che ha innanzitutto avvertito, appunto, della complessità dell’obiettivo: “Stiamo in un mondo folle, molto pericoloso, molto aggressivo. Dobbiamo fare uno sforzo di consapevolezza del nemico fortissimo che abbiamo di fronte: il potere finanziario che detta come organizzare la nostra sanità, gli asili nido, l’istruzione… Per il livello di attacco di questa crisi le nostre risposte non sono sufficienti”. Conclude però che: “Abbiamo la capacità di trovare modi nuovi di vivere la nostra vita: siamo tutti protesi a cercare una buona vita, cioè una vita sensata, una vita dove non siamo dei mezzi”. Per fare questo dobbiamo partire dalla conoscenza che hanno le donne: la conoscenza sui corpi, sulla vulnerabilità maschile – e qui il discorso di Picchio si fa molto diverso rispetto alle tiritere sulla partecipazione paritaria alle istituzioni così come esse sono, e anche rispetto alle richieste di condivisione paritaria del lavoro domestico – va molto più in profondità: “Il problema maschile è che gli uomini non si occupano della loro vulnerabilità, e scaricano sulle donne questo aspetto delle loro vite”. Vivono di miti, come ad esempio “l’utilità” nelle teorie degli economisti: “Nell’esperienza delle donne non si capisce che cosa sia l’utilità, è un mito. Sraffa ha dimostrato scientificamente (che vuol dire svelando la realtà) che la teoria economica neoclassica è una teoria incoerente logicamente. È da buttare, ma non viene buttata via perché è unita al potere economico. Salario e saggio di interesse sono processi politici, non incontri di curve di domanda e offerta”.

Continua Picchio: “E c’è un altro mito condiviso da economisti neoclassici e dal pensiero di classe: che le donne sono il meccanismo di aggiustamento perché sono infinitamente sacrificabili, onnipotenti, e se non ce la fanno interiorizzano il fallimento e se ne danno la colpa”.

Siccome l’obiettivo del sistema capitalistico è il sovrappiù, questo sistema è condannato a un’accelerazione insostenibile. E ribellarsi contro questo sistema non è un pranzo di gala: “L’azione politica contro le banche non è un problema di decrescita”. Per Picchio le sussistenze sono il vero capitale, perché il lavoro non pagato è un po’ più del pagato, lo dicono le statistiche nazionali, e le donne di questo pagato ne fanno 2/3, in un luogo di lavoro pericolosissimo: ogni anno solo in Italia si verificano 8000 incidenti mortali in casa. Eppure “Le associazioni qui pensano ancora alle donne come un bene comune, ma il lavoro delle donne è lavoro comandato da istituzioni, come la chiesa e il matrimonio (anche nello stesso sesso). E in questo quadro la sessualità diventa uso e consolazione”. Esorta Picchio: “Dovete mettere in discussione le vostre vite, Latouche ci deve raccontare chi lo riproduce”

I convenuti parlano di resistenza alle grandi opere come alle piccole dighe, di mense popolari biologiche dove chi ha bisogno non viene trattato come un paria come nelle mense istituzionali per i poveri (“Solo i pasti, niente economia?””Ma il cibo è la base dell’economia”), di orti popolari nelle pieghe delle città (“La terra della città è tua, coltivala!”), di moneta locale, non gravata da interesse, come la sterlina che circola a Brixton con raffigurato David Bowie nelle vesti di Ziggy Stardust, e anche della scelta, realizzata dagli studenti di design dell’università IUAV dove si svolge la conferenza, di progettare solo allestimenti riciclabili.

Esaltano la biodiversità preservata dai contadini che producono per i mercati locali: “L’agricoltura di massa è più costosa, ma prende sussidi” – anche in questo ambito si fanno proposte concrete che riguardano la nostra alimentazione e più in generale le scelte di sobrietà.

Bisogna spostarsi dal globale verso l’autosussistenza, secondo l’indicazione di Veronica Bennholdt-Thomsen, che appartiene alla corrente del femminismo che ha teorizzato la prospettiva della sussistenza: “La battaglia dello sviluppo è stata combattere contro l’autosufficienza, e per un periodo storico la cultura commerciale del consumismo ha trionfato. Da allora l’economia della sussistenza si chiama sottosviluppo, dove sviluppato vuol dire appartenente alla razza superiore”. Invece, prosegue Bennholdt-Thomsen, “Sussistente è ciò che esiste da solo, di per sé”.

La pars destruens è facile: la crescita del PIL, che purtroppo è propugnata come obiettivo da tutti i politici, è una strategia che serve solo a rilanciare i profitti, a discapito del buen vivir, e della stessa sopravvivenza umana sul pianeta, alla (neanche tanto) lunga. Si vuole allungare l’orario di lavoro (sei giorni lavorativi la settimana in Grecia!) invece di ridistribuire il lavoro esistente, e l’unico senso di questa manovra è ristabilire i profitti, non certo aiutare i lavoratori e i disoccupati. Per questo il conflitto sociale non può essere eluso, come pure facevano alcuni degli oratori.

L’obiettivo della decrescità comprende anche proposte concrete per uscire dalla crisi in modo da evitare l’impoverimento e la polarizzazione economica ancora più spinta verso cui tende la crisi stessa. In particolare Maurizio Pallante ha fatto un elenco di idee per la pars costruens che gli dovrebbero meritare la guida di un governo tecnico.

Pallante distingue la ricchezza dal denaro, i beni dalle merci, e il lavoro dall’occupazione: non sono affatto la stessa cosa, e la politica è attenta solo al secondo termine di queste alternative. “Non è un nostro obiettivo creare occupazione, se questa per esempio avviene aumentando la produzione di armi. Inseriamo invece elementi qualitativi nei nostri obiettivi, come l’occupazione utile, con un uso più intenso del lavoro, ad esempio per mettere in sicurezza il territorio, o per individuare gli sprechi e ridurli”. Cita il suo famoso paragone della politica di conversione alle energie rinnovabili prima di aver reso efficienti le tecnologie, con l’avere in mano un secchio bucato da riempire: “Qualunque persona sensata prima ripara il secchio, e poi lo riempie con un altro contenuto!”

Per Pallante “economia” non è l’analisi delle curve di domanda e offerta (una visione tutta interna alla logica del denaro), ma vedere i punti in cui l’attività umana impatta con l’ambiente e quali sono i punti di inefficienza delle tecnologie: “Abbiamo bisogno di tecnologie più avanzate, non minori. L’occupazione utile è nelle tecnologie che riducono questi sprechi e ci sono imprenditori che hanno la tecnologia per farlo. Mentre con la Tav una spesa di un milione di euro porta a 0,073 posti di lavoro,  con le piccole opere la creazione di lavoro sarebbe molto più alta”. La considerazione politica è che: “Dobbiamo creare un blocco sociale contro il blocco di potere attualmente dominante, che è costituito dai partiti otto-novecenteschi con la loro logica della crescita, insieme al potere militare e alle multinazionali. Invece la piccola e media industria, i professionisti, gli artigiani e le associazioni/comitati della società civile possono allearsi per obiettivi economico-politici che vanno appunto in direzione della decrescita e non della crescita del Pil”. Pallante nota che è dal 1960 che la crescita del Pil non ha portato occupazione: “Sono sempre 22 milioni gli occupati, mentre il Pil è cresciuto di quattro volte, e anche la popolazione è aumentata. Perseguire la crescita significa aggravare la crisi – come stanno appunto facendo i banchieri al nostro governo”.

Serge Latouche ritiene che nella politica economica dobbiamo liberarci di due tabù: il protezionismo, che invece ci serve contro la predazione fatta dalle imprese transnazionali, e l’inflazione – una inflazione moderata serve a diminuire il debito pubblico. Si scaglia senza indugi contro l’euro: “Bisogna uscire dall’euro, da La trappola dell’euro, che è un libro di Badiale e Tringali che vi consiglio”.

Mauro Bonaiuti nota che da trent’anni nelle economie industriali il debito cresce più del Pil, indipendentemente dai governi in carica: persino Reagan e i Bush lo hanno fatto aumentare. La società odierna dei rendimenti decrescenti fa presagire che le grandi strutture che oggi dominano la vita sociale subiranno un collasso, cioè una perdita di complessità, e uno smembramento: concretamente significherà probabilmente l’assorbimento delle grandi imprese da parre del settore pubblico.

In realtà non ci sono state discussioni approfondite sull’importante tema dell’euro, piuttosto sulla moneta in generale ha parlato un’altra femminista: Mary Mellow, autrice di The future of money. From financial crisis to public resource, in cui appunto il denaro è considerato un bene comune, una risorsa indispensabile alla vita sociale che però è stata privatizzata dalle banche, che la controllano con l’obiettivo del proprio profitto: “Il denaro è controllato dalle banche, è stato privatizzato sotto forma di debito che deve produrre interesse, quindi il lavoro deve essere sempre impiegato in modo crescente per ripagare gli interessi: in nessun modo puoi decrescere con questo sistema. Bisogna democratizzare il denaro perché il sistema monetario è un bene comune. Le banche dovrebbero limitarsi a fare quel che dicono di fare, cioè trasformare i depositi in prestiti, e parte della moneta deve essere libera dal debito. Bisogna partire da un deficit, altrimenti non c’è nessuna circolazione quando le banche rivogliono il credito fatto più gli interessi, e arriva la crisi”. Il paragone è con i gettoni che servono a tenere conto delle ore di baby sitting reciproco fatte in un gruppo di famiglie: “Se una famiglia tesaurizza i gettoni, non si realizzerà più alcun baby sitting”.

Mellow contrappone la ricchezza personale alla reciprocità sociale, che deve tornare ad essere il valore principale, come lo è stato in molte altre civiltà. “Sufficiency è un’altra parola che possiamo usare”, dice ancora Mellow, “con questo criterio è più facile vedere chi non ha abbastanza e chi ha troppo”.

La cultura anticonsumista, in cerca di un’autenticità delle relazioni umane piuttosto che di un accumulo di oggetti è stata ribadita da molti relatori: Helena Hodge femminista norvegese, denuncia la cultura diffusa, anche e soprattutto attraverso la pubblicità, che dice ai bambini che saranno amati solo se hanno i jeans e le scarpe della marca giusta: “Anche questo porta alla separazione e alla competizione”. Salvör Nordal, una filosofa del comitato che ha riscritto la costituzione islandese, ricostruisce così gli anni prima della crisi: “Siamo stati dei bravi consumatori”.

Non sempre è presente negli oratori e nel pubblico la consapevolezza che questa transizione – che dà il titolo alla conferenza – non sarà possibile senza conflitto, senza ribaltare gli attuali rapporti di potere: non tutti gli interventi lo sottolineano, e serpeggia qua e là molto buonismo, molta visione del mondo in pericolo come salvabile “se tutti si danno una mano”. Un altro neo è il fatto che il lavoro di cura, quello realizzato in massima parte in modo gratuito dalle donne, non è sempre considerato. Antonella Picchio, da invitata critica, lo sottolinea: “Il vostro guru Latouche continua a far battute sul fatto che le donne vogliono la lavatrice. Come appunto se fosse compito loro il lavare i panni, invece che di tutti”. Un’intervento in plenaria aveva anche parlato dello sfruttamento delle donne del Nord verso quelle del Sud del mondo che lavorano come domestiche: “Il pagamento all’aiuto domestico è una questione di classe e non di genere”, dice ancora Picchio. È stata denunciata una recente campagna della rivista di lingua spagnola El ecologista che ha richiesto il ritorno donne al focolare, dichiarando anche che l’aborto è “antiecologico”.

Anche l’affermazione che “È possibile venire a piedi, con l’asino, in bici”, perché così sono arrivati ad esempio i partecipanti all’Ecotopia bike tour, appare un filino esagerata: da Barcellona ci han messo due mesi – non proprio un periodo di tempo alla portata di tutti.

“Ma dov’è la transizione?” dalla società dei consumi in crisi alla società della decrescita, ci si chiede. È  nelle micropratiche di ricostruzione del tessuto sociale, come orti, cene collettive, nel rimettere le persone in contatto tra di loro e ricostruire una comunità. Piccole cose, che i praticanti /decrescenti sanno essere preziose per la ricostruzione di una società atomizzata del capitalismo avanzato. C’è anche la proposta di prendere ispirazione dalle religioni e pensare all’efficacia dei propri messaggi sull’arco di decine, se non di centinaia di anni.

Giorgios Kallis nella plenaria conclusiva pone tre importanti domande: perché e come le civiltà passate hanno tenuto sotto controllo l’accumulazione (di capitale)? Come possiamo redistribuire il lavoro? E infine: la definizione di decrescita non è automaticamente democratica – chi, come e perché lotterà per una transizione democratica alla decrescita? Joan Martinez Alier, l’economista ecologico, connette il movimento per la decrescita con il movimento per la giustizia ambientale globale (vedi il sito cui collabora www.ejolt.org), che si batte in particolare contro i progetti di realizzazione di grandi infrastrutture. E conclude: “Non è affatto sufficiente che un’economia industriale non cresca, abbiamo bisogno di decrescita”.

Tutti i materiali della Conferenza Internazionale sulla Decrescita, clicca qui

 

Il seminario di XXD su popolazione e decrescita

di Daniela Danna

 

“Resistenza femminile alle pressioni demografiche” è lo slogan con cui abbiamo sintetizzato i contenuti del seminario, che ha visto come relatori Giuliano Cannata (tra i fondatori di Lega Ambiente, il suo ultimo libro è Dizionario dell’estinzione, NdA press 2012), Daniela Danna (Associazione XXD e Università di Milano), Paola Leonardi (Centro autostima donne) insieme a Ferdinanda Vigliani (Centro studi sul pensiero femminile). Così come le italiane non tennero in nessuna considerazione gli imperativi mussoliniani per raggiungere gli “otto milioni di baionette”, anche oggi la natalità continua a decrescere, per la costernazione di demografi, religiosi e politici. Ma ci vuole un’inversione di marcia culturale che faccia vedere positivamente questo fenomeno, che va nella giusta direzione del restringimento dell’impatto umano sull’ambiente naturale – la diminuzione dei figli per donna avrebbe dovuto verificarsi già da tempo, e ha un impatto di decrescita tanto maggiore quanto più avviene nei paesi ricchi, la cui impronta ecologica pro-capite è oggi molto maggiore del territorio su cui vivono.

Nelle relazioni presentate si è passati da una visione “macro” di critica del discorso demografico, nonché politico, della necessità di aumentare le nascite delle italiane – si teme un’”estinzione” tra duecento anni (!) dell’Italia, un’entità geopolitica che non si sa se esisterà ancora in un’epoca così lontana – a riflessioni più intimiste sul significato del dare la vita (e con questo anche la morte), passando per le motivazioni, tutte diverse tra loro, delle donne famose intervistate sulla loro scelta di non avere figli – piacevole la battuta di Natalia Aspesi: “Maternità non fa rima con felicità”. “Dobbiamo sfatare i pregiudizi, la nostra è ancora una scelta scandalosa”, osservano Leonardi e Vigliani, entrambe childfree e autrici di Perché non abbiamo avuto figli. Donne “speciali” si raccontano (Franco Angeli 2009).

I partecipanti non sono stati molto numerosi – eravamo una dozzina – e fondamentale per la sintesi finale, che è stata riportata su un poster nella sala delle plenarie l’ultimo giorno, è stato il lavoro del facilitatore Mario Bellinzona, che ha tenuto traccia dei temi delle discussioni. I seminari sono stati strutturati in modo da stimolare l’apporto dei partecipanti attraverso questa figura del facilitatore (e di un’altra volontaria che si è incaricata della traduzione per gli stranieri presenti), anche con la possibilità di mettere le domande/i suggerimenti/le richieste di chiarimento in forma scritta. Tra le domande cui non si è potuto dare risposta: “Perché gli uomini vogliono dei figli?”, che significato può avere per loro questo desiderio, considerato soprattutto – aggiungo – che poi non se ne occupano?

Riproduciamo anche qui, come sul sito della Conferenza di Venezia, i link ai paper che sono stati presentati.

Introduzione dell’Associazione XXD

Daniela Danna

Giuliano Cannata

Paola Leonardi e Ferdinanda Vigliani

Per proseguire il discorso, il 20 ottobre a Reggio Emilia ci sarà un convegno intitolato “Mamma o non mamma: Significati di una scelta” organizzato da A.I.D.M. (Associazione Italiana Donne Medico) con la partecipazione di Leonardi e Vigliani.

Pubblicato in articoli, generale | Contrassegnato , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

sostieni xxd

Care lettrici, cari lettori,
il tempo di produzioni dal basso è scaduto, mesi di desideri, aspettative, speranze e tanta voglia di farcela ma non abbiamo raggiunto le quote. È possibile prorogare la scadenza una volta e l’abbiamo fatto al 15 novembre, in attesa di vederci e decidere il da farsi. Nuove forze sono benvenute anche in questo momento di passaggio, a partire da chi ci può aiutare con la comunicazione, perché siamo fiere di quello che facciamo, ma sappiamo che il nostro pubblico potenziale (nonché gruppo che realizza xxd) è molto, molto più ampio di quello che finora riusciamo a raggiungere.
E il nuovo primo progetto di XXD esiste già: un numero dedicato alle riviste femministe, quelle che hanno chiuso, quelle ancora aperte, vorremmo raccogliere le testimonianze di chi ha vissuto l’avventura della stampa femminista, ci piacerebbe scrivere delle loro esperienze e delle esperienze delle lettrici, dei risultati e delle difficoltà e per farlo chiediamo a tutte le redattrici passate e presenti, di contattarci per costruire insieme un numero tematico.
Ultima cosa importante: tutti gli articoli dei sedici numeri pubblicati sono disponibili sul sito e potete trovarli divisi per argomenti.

La redazione

Read and enjoy your xxd
http://www.danieladanna.it/xxdonne
Mail: redazione@xxdonne.net
Sostienici: http://www.produzionidalbasso.com/pdb_917.html
Clicca su mi piace:http://www.facebook.com/xxdonne

Lascia il tuo nominativo sul sito di Produzioni dal basso*
http://www.produzionidalbasso.com/pre_917.html?PHPSESSID=unlad06urlviq4co4npgq6fh96

Pubblicato in generale, iniziative | Lascia un commento

Some Prefer Cake 2012 Bologna Lesbian Film Festival

Celebriamo la ricchezza del cinema lesbico
Some Prefer Cake – VI Edizione 20-23 Settembre 2012
Bologna, Nuovo Cinema Nosodella

www.someprefercakefestival.com
info@someprefercakefestival.com
cell. +39 3391408010

Prodotto da Fuoricampo, Officina di Arte, Studio e Politica lesbica
Direzione artistica Luki Massa

Pubblicato in iniziative | Lascia un commento